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Nel Ducato di Castro – La città, la necropoli, la tagliata e gli eremi rupestri
Data: 27/09/2018- Categoria: Escursionismo, Seniores
Organizzatori RAGNI MARCELLO
MENGHINI ALESSANDRO
Descrizione:

 Si tratta di tre piccole escursioni successive:

1 – Castro

Dalla località Crocifisso di Castro (dove sono un Santuario e una tomba etrusca a semidado), si sale lievemente in direzione sud e si raggiunge una necropoli etrusca con tombe scavate nella roccia, che visiteremo. Scenderemo quindi al torrente Olpeta e lo attraverseremo per percorrere (avanti in salita e poi indietro in discesa) il Cavone, una via cava dove passava la Via Clodia. Riattraversato l’Olpeta, saliremo verso la rupe di Castro e costeggiando la parte meridionale, arriveremo alla chiesa di Santa Maria (eclatante esempio di scempio per abbandono). Quindi tornando verso nord ovest visiteremo il poco che rimane della chiesa, dei palazzi, delle vie e delle piazze di una citta rinascimentale. In breve poi si scende al punto di partenza.

Lungh. 4 km – disl. 150 m – h 3

2 – Eremo di Ripatonna Cicognina

Riprese le auto, con un tragitto di circa 6,5 km si raggiunge la valla del Fiora, si segue la direzione Canino e si parcheggia presso il ponte sull’Olpeta. A piedi si risale a sinistra il corso del torrente per circa 800 m in sostanziale pianura, quindi a sinistra si sale ripidamente all’Eremo poco distante. Si torna alle auto per lo stesso percorso.

Lungh. 2 km – disl. 40 m – h 1

3 – Eremo di Poggio Conte.

Riprese le auto, si percorre la provinciale per altri 750 metri. Lasciate nuovamente le auto si imbocca a sinistra uno stradone che scende a tratti ripidamente verso il Fiora, che si costeggia per un tratto a destra. Quindi il sentiero si addentra nel bosco ed in breve si giunge all’Eremo incastonato in alto nella parete. Si torna per la stessa strada.

Lungh. 4 km – disl. 60 m – h 2

Lunghezza Percorso: 10 km Dislivello: 250 m Durata stimata: 6 h
Difficoltà: E
Modalità  e mezzi: Mezzi propri. Indicazioni per Castro : Perugia - E45 per Todi - Bar le Querce - uscita Todi - dir. Orvieto - lago di Corbara - 3,6 km dopo la diga si gira a sn per Lubriano - al quadrivio dopo 4,2 km andare dritti per Bagnoregio - dopo 6,5 km piegare a dx per Bagnoregio – seguire le indicazioni per Bolsena – Bolsena – Gradoli – seguire indicazioni prima per Pitigliano, poi per Latera – Latera – Farnese – (dir. Pitigliano) dopo 6 km svolta a sinistra per Manciano e quindi indicazioni per Santuario di Castro (km 129) Indicazioni per l’Eremo di Riapatonna Cicognina: Dal Santuario di Castro si torna sulla strada per Manciano e la si segue per 4,4 km – si piega a sinistra dir. Canino – Dopo 900 m si parcheggia nei pressi di un ponte sul fiume Olpeta che qui si getta sul Fiora. Indicazioni per l’Eremo di Poggio Conte: Si continua sulla strada precedente per 750 m. - a destra una strada bianca di 2 km a tratti piuttosto ripida porta nei pressi dell’eremo. Per il ritorno a Perugia conviene fare a ritroso la strada dell’andata.
Appuntamento

Alle ore 7,30 da Borgonovo, oppure alle 7,45 dal bar Le Querce sulla E45

Iscrizione/Prenotazione:

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Approfondimenti:

Castro: la Cartagine dei Volsinii.

Castro, abitata fin dall’epoca preistorica, fu città etrusca posta lungo la via Clodia. Alcuni studiosi la identificano con Statonia. Si trova a S-W del Lago di Bolsena, lungo il declivio dei Monti Volsinii che dall’orlo della caldera lacustre vanno dolcemente a smorzarsi nel mare Tirreno. È situata su uno sperone tufaceo alla confluenza del fosso delle Monache con il fiume Olpeta, un piccolo corso d’acqua che, uscito dal Lago di Mezzano, si dirige prima a N e poi, virando con un arco di 180°, volge il suo corso verso la valle del Fiora, in cui confluisce poco sotto Castro. Sebbene non rinomata come altre città etrusche della zona (la vicina Vulci, Tarquinia, Cerveteri, Blera, ecc.), ebbe una certa importanza proprio perché attraversata dalla suddetta via. Vi è annessa una necropoli, nella quale nel 1967 è stato ritrovata una biga, purtroppo incompleta, simile a quella di Monteleone di Spoleto. Con l’occupazione dei Romani, costruttori di strade diritte e più agevoli, perse notevolmente d’importanza.

Tornò a rivivere in epoca altomedievale per la riattivazione della via Clodia nel periodo della lotta bizantina contro i Longobardi: la via permetteva di evitare il cosiddetto Corridoio bizantino soggetto a continua contesa tra le due parti (Perugia, invece, venne a trovarsi proprio al centro di tale striscia che univa il Lazio al Ravennate). Senza morire del tutto come centro abitato, andò poi spopolandosi sempre di più, malgrado le pianure circostanti, la sottostante valle dell’Olpeta e quella del Fiora fossero molto fertili. Il fatto è che erano soggette a impaludamento e quindi idonee alla diffusione della malaria (malaaria: ricordate la canzone di appena due strofe Maremma amara? O le imprecazioni toscane Maremma maiala o anche Maremma ladra, che per molti sottintendono la sostituzione del nome Madonna con quello della regione incriminata, ma che sicuramente rievocano le condizioni amare di un tempo di questa terra? E lo sapete che il termine italiano malaria si è diffuso in tutto il mondo e tale si pronuncia in francese, inglese, tedesco, giapponese e tante altre lingue?).

Ma torniamo a Castro. Entrata a far parte dello Stato Pontificio, rimase solo uno sperduto paesino sulle carte geografiche del tempo. Finché in pieno Rinascimento, per la precisione nel 1537, la città rinacque a nuovo splendore, secondo i canoni urbanistico-architettonici del tempo, che cancellarono quasi del tutto quanto di medievale ancora esisteva. Perché e a opera di chi? È necessario a questo punto aprire una piccola parentesi storica.

La famiglia Farnese era venuta affermandosi sempre più nella zona compresa tra il mare Tirreno e il lago di Bolsena come Signoria del posto e raggiunse il culmine della sua potenza quando un suo membro, Alessandro, figlio di Pier Luigi I, fu eletto Papa nel 1534. Il personaggio è ben noto ai perugini per via dell’imposizione della tassa sul sale e per aver fatto costruire la Rocca Paolina. Alessandro salì al soglio pontificio, come Paolo III, in un periodo di forte decadenza della Chiesa, considerata come un feudo privato dai vari papi che lo avevano preceduto (e che lo seguiranno) e ch’egli imitò in tutto e per tutto quanto a nepotismo. Non solo nominò subito cardinale il nipote Alessandro II, ma nel giro di tre anni brigò perché all’interno dello Stato pontificio sorgesse un Ducato da assegnare al figlio Pier Luigi II, nella zona già soggetta all’influenza farnesiana e cioè tra il Mar Tirreno e il lago di Boldena (che ne fa parte anche se non integralmente) e tra i fiumi Fiora e Marta. Come capitale del piccolo Ducato venne scelto proprio l’abitato di Castro per una serie di ragioni, sia politiche che economiche (ricchezza di boschi e di pascoli, ipotetico sfruttamento minerario dei dintorni, ecc.). Chiusa parentesi.

Pier Luigi Farnese, primo duca di Castro, o chi per lui, cercò di fare del piccolo abitato una vera e propria capitale, con la costruzione di imponenti edifici quali il Palazzo Ducale, la Zecca, la Cattedrale, la piazza lastricata con mattoni a spina di pesce, e così via, chiamando artisti di chiara fama, tra i quali spiccò Antonio da Sangallo il Giovane, che tra i tanti progetti fatti per i Farnese, annovera anche quello della Rocca paolina (come dire che la lingua batte dove il dente duole!).

Passati appena otto anni, Paolo III fece un altro capolavoro diplomatico riuscendo a far nominare Duca di Parma e Piacenza lo stesso Pier Luigi II. I Farnese si trasferirono quindi nella nuova sede di Parma, pur mantenendo il Ducato di Castro. Questo, tuttavia, perse sempre più di importanza stante la lontananza della corte, malgrado la cittadina rimanesse sede vescovile – lo era dal VII secolo, dopo la distruzione di Vulci a opera dei Saraceni – e nel 1613 fosse stato operato un ripopolamento forzato con gli ebrei abitanti nei paesi vicini. Lo status quo si prolungò per decenni stanti anche gli imparentamenti dei Farnese con personaggi di Case Reali e le loro “aderenze” in alto loco (Carlo V, Enrico II di Francia, ecc.). L’ascesa di altre case nobiliari romane verso il soglio pontificio – prima i Barberini con Urbano VIII, poi i Pamphilij con Innocenzo X – che vedevano il Ducato di Castro come una spina nel fianco dello Stato Pontificio, portò a peggiorare le cose. Si addivenne così a una “prima guerra di Castro”, le cui cause remote possono essere ritrovate nella politica espansionistica della famiglia Barberini, che trovò sul suo cammino il duca Odoardo Farnese. Prendendo come pretesto la posizione del Ducato di Castro all’interno del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, Urbano VIII Baberini, in combutta con i due nipoti, il cardinale Francesco Barberini e il cardinale Antonio, maturò il deciso proposito di spogliare i Farnese dei privilegi e possedimenti che la famiglia godeva.

Dopo aver cercato di farsi vendere il ducato, i due fratelli cercarono altri mezzi per mettere in difficoltà il duca Odoardo Farnese, approfittando della sua crisi finanziaria. I Barberini presero come pretesto il possibile fallimento dei Monti Farnesiani e per garantire i creditori del duca giunsero fino all'occupazione del ducato ed al successivo sequestro dei beni dei Farnese nello Stato pontificio.

L'occupazione del Ducato di Castro da parte delle truppe pontificie incominciò il 27 settembre 1641 e si spinse fino ad assediare la cittadina. Per reazione le truppe dei Farnese entrarono nello Stato della Chiesa arrivando ad occupare la città di Acquapendente e facendo temere al pontefice un nuovo sacco di Roma. La prima parte della guerra si concluse con le trattative di pace di Castel Giorgio, che portarono al ritiro delle forze farnesiane. Tuttavia, i negoziati fallirono il 26 ottobre 1642 ed Odoardo vide vanificata la sua avanzata nei territori pontifici a tutto vantaggio dei Barberini che poterono riorganizzare le proprie difese.

Dopo vari tentativi del Farnese di riconquistare Castro tramite spedizioni militari via terra e via mare, si arrivò alla seconda fase del conflitto: si formò una lega tra il granduca di Toscana, la Repubblica di Venezia e il duca di Modena, che, preoccupata per le mire espansionistiche dei Barberini, spingeva per la restituzione del Ducato al legittimo proprietario. Gli alleati, che fino ad allora avevano appoggiato Odoardo solo moralmente, entrarono in guerra agli inizi del 1643. La “prima guerra di Castro” terminò con il trattato di Roma del 31 marzo, che, grazie all'aiuto diplomatico francese, restituiva il ducato al Farnese e lo riconciliava con la Santa Sede. L'accordo venne suggellato l'anno successivo con la nomina del fratello di Odoardo, Francesco, a cardinale.

Alla morte di Odoardo, gli successe il figlio sedicenne Ranuccio II, che, oltre ai debiti pregressi, ereditò anche quelli della guerra appena terminata. Mentre erano in corso le trattative tra il ducato e il papato per la nomina del nuovo vescovo di Castro, papa Urbano VIII morì. Fu eletto Papa il settantenne Giovan Battista Pamphilij, col nome di Innocenzo X (1644-1655), che passerà alla storia, tra le altre cose, per essere stato fortemente influenzato, per non dire plagiato, dalla cognata Olimpia Maidalchini, signora di S. Martino al Cimino, donna intrigante e ambiziosa, che vedeva i Farnese come il fumo negli occhi.

Il 17 aprile 1648 il papa, senza consultare Ranuccio, nominò vescovo di Castro il barnabita monsignor Cristoforo Giarda. Ranuccio gli vietò l'ingresso in città fino ad un avvenuto "accomodamento" con Roma. Passò quasi un anno e nemmeno la corrispondenza epistolare riuscì a sbloccare la situazione. Per questo motivo il pontefice ordinò al vescovo di prendere, comunque, possesso della sua diocesi. Questi, il 18 marzo del  16469, diretto da Roma a Castro, vicino Monterosi fu vittima di un agguato portato a termine da Ranuccio Zambini di Gradoli e Domenico Cocchi di Valentano. A Innocenzo X – e alla cognata Olimpia – non parve vero: attribuì immediatamente la responsabilità dell'agguato a Ranuccio Farnese e ordinò, quindi, al governatore di Viterbo Giulio Spinola di istruire un processo per stabilire la responsabilità dell'atto: da qui la decisione di attaccare il ducato, (“seconda guerra di Castro”).

Malgrado gli sforzi di Ranuccio II, l’assediata Castro capitolò il 2 settembre 1649 e il papa ne ordinò la totale demolizione: furono rasi al suolo tutti gli edifici, compresi la chiesa principale, la zecca, le abitazioni gentilizie. Il duca Ranuccio II, impossibilitato a ripianare i notevoli debiti, dovette accettare la perdita del ducato.

Della cittadina distrutta non rimase in piedi niente, né palazzi, né case: sul lato orientale fu eretta una piccola colonna con su scritto: QUI FU CASTRO. Tutti i soldati e gli abitanti di Castro furono fatti uscire ordinatamente in fila: si riversarono verso i paesi vicini e nessuno osò tornare a Castro per abitarvi. Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini (o Pamphilij che dir si voglia).

In mezzo ad un trivio, sul lato occidentale del paese, rimase in piedi solo una stele a forma di piramide triangolare recante, sulla faccia volta a S, l’immagine di un crocifisso e, ai lati, quelle di due santi, in modo che da ogni strada si potesse vedere una figura. Quella del Crocifisso fu la più persistente alle intemperie e continuò ad essere oggetto di devozione da parte di pastori, boscaioli e contadini che passavano di lì. Prima vi venne costruita attorno un’edicola, ma poi a metà del Settecento, stante il continuo andirivieni delle popolazioni circostanti, si pensò di costruire un santuario più grande, a maggior comodo dei pellegrini. Passò un secolo, però, prima che l’idea si realizzasse: a metà Ottocento fu eretto il Santuario, poi a più riprese ampliato e sistemato fino a quasi tutto il Novecento. È qui che venne collocata e si venera, in particolare durante il mese di Giugno, la sacra immagine rimasta dalla distruzione di Castro.

L’unica testimonianza di Castro che in parte è ancora in piedi è la Chiesa di Santa Maria extra moenia, evidentemente risparmiata dai demolitori, ma che il tempo e l’incuria degli uomini non hanno risparmiato dal degrado. Infatti solo i cerri presero possesso delle rovine e le coprirono sotto un manto di foglie, radici e rami secchi. Il bosco diventò fitto e impenetrabile e servì solo di rifugio ai briganti che nell’Ottocento spesso si rifugiavano nella zona (il cosiddetto Sentiero dei briganti passava per Castro).

Ci fermiamo qui. Inutile descrivere qui in dettaglio i ruderi della città, lo potremo fare sul posto. Così ognuno potrà sperimentare in proprio le doti di esploratore-archeologo. Questo vale anche per i due eremi di Ripatonna Cicognina e di Poggio Conte, assai diversi per positura e architettura. Inutile descriverli, perché per gustarne appieno il fascino bisogna scovarli, entrarci dentro (magari in punta di piedi), osservarli bene e una volta dentro… meditare, meditare, gente!

Alessandro Menghini e Marcello Ragni

Allegati: Castro storia.pdf
Contatta gli organizzatori:

Alessandro Menghini  328 6507546

Marcello Ragni 335 6794803